Tre case, 2013

Complicare è facile, semplificare è difficile

“Bisogna sempre sfrondare”, raccomandava Charlie Chaplin, paradossalmente sempre serissimo quando parlava del suo lavoro, che viceversa suscitava risate nel mondo intero. Certo, lui parlava di cinema, dunque di immagini in movimento. Ma niente e nessuno ha impedito a Enrico Minasso -che pur si occupa di fotografia, e dunque di immagini fisse- di raccogliere la raccomandazione del grande Charlot.
Dopo aver indagato ampi spazi nel suo volume Stromboli (cosa c’è di più “aperto” di un’isola?), Minasso si rinchiude adesso nelle “Trecase”. Non solo: restringe le sue inquadrature sino a comprendere pochi, pochissimi oggetti. Logico quindi parlare di minimalismo, concetto che tuttavia Minasso declina secondo un suo personalissimo stile. E’ lontano ad esempio dall’iraniano Hossein Zare, che sovente cede alle lusinghe del colore, cosa che Enrico non farebbe mai nemmeno sotto tortura (“Colore… colore… Ma vuoi mettere un bel bianco e nero profondo e croccante!”) e neppure si può accostarlo a Kevin Saint Grey, il quale è spesso  attratto dagli infiniti panorami e dai maestosi grattacieli della sua California. Il minimalismo di Minasso sembra piuttosto rievocare la lezione dell’astrattismo geometrico caro a Mondrian e Malevich, secondo i quali il mezzo espressivo fondamentale è la linea e la forma ideale è il rettangolo (che, sia pur di poco, è  il formato delle immagini di questo volume). Per essere ancora più precisi, potremmo parlare di neoclassicismo, forma estrema dell’astrattismo geometrico: “Nella poetica neoplastica è estetico il puro atto costruttivo: combinare una verticale e una orizzontale oppure due colori elementari (come il b&n, n.d.r.) è già costruzione” (Giulio Carlo Argan).

Giovanni Medolago